Particolarmente esplicito, a questo proposito, l’ordinato
del 18 aprile 1852, che riporta anche il parere della Consulta.
La Compagnia di San Paolo, sempre riconosciuta come
società privata, veniva invece paragonata nelle prescrizioni
ministeriali ad un’amministrazione pubblica o ad un’opera
del governo che poteva essere modificata ad arbitrio di que-
st’ultimo. Accettare pertanto di sottomettersi alle disposi-
zioni del decreto avrebbe significato l’esautorazione della
Compagnia dal «dritto e possesso di esclusiva amministra-
zione del suo patrimonio sin allora goduto». Sarebbe come
ammettere che il governo possa «esigere da un corpo sociale
[...]
un atto col quale abbia egli stesso per così dire a suici-
darsi». Veniva precisato, infine, che tale deliberazione non
era mossa «da spirito di opposizione, o di partito contro il
provvedimento emanato dal Ministero», ma «da un principio
di coscienza congiunto a quello di diritto competente ad un
corpo legalmente riconosciuto»
20
.
L’irreversibilità delle scelte aveva ormai segnato il corso
delle vicende. La stessa congregazione, approvando il parere
espresso a maggioranza dalla Consulta, rinunciava a presen-
tare nuove proteste in occasione dell’emanazione del decre-
to del 13 febbraio 1853
21
.
Le fasi successive erano caratterizzate da un ripiega-
mento pressoché esclusivo sul fronte della pratica religiosa e
del mantenimento dell’Oratorio. Anche il tentativo di risa-
namento di un bilancio ormai precario attraverso una sotto-
scrizione tra i confratelli di azioni di lire 10 ciascuna, utile
nel contempo per un’eventuale ripresa dell’impegno della
169
20
Ibidem
.
Nello stesso tempo si auspicava una revisione del provvedi-
mento, sottolineando il fatto che «non può mai essere ascritto a colpa,
ma bensì a lode di un governo quando maggiormente illuminato sui
fatti esso viene a modificare una providenza già emanata».
21
Cfr. ordinato del 6 marzo 1853 (doc. n. 10).