La gloria di Dio, le consolazioni eterne, il dare come
ricevere, l’inno al disperdersi su questa terra e al ritrovarsi
in cielo, la fedeltà e l’amore alla patria celeste come modo
vero per essere di aiuto a quella terrena, nella prospettiva di
un secolo e di una vita che sempre muore, sottraendosi, così,
alla «
civitas diaboli
»
per giungere alla Gerusalemme celeste,
approdano all’insistenza finale ancora retoricamente affabu-
lata per l’invito allo spargere «
celeriter, alacriter, abundan-
ter
»,
in linea con i modelli biblici e dei santi padri, di Abra-
mo «
qui sola fide exivit de terra sua omnibus relictis nesciens
quo iret
»,
di Mosè, di Giobbe, di Paolo «
qui tanta sustinue-
runt; tot sanctos Patres, qui tanta distribuerunt simul, et tam
asperam vitam in paupertate duxerunt
».
La tensione ascetica che pervade l’epistola suasoria, tra-
mata dalle immagini e dalle parole di Paolo, missionario
della carità, ancor prima che delle genti, dello «
spiritus Dei
»
caro ai gesuiti, novelli apostoli che rinnovano il primitivo
cristianesimo, dei grandi del tempo, che scelsero il ritiro ulti-
mo e la solitudine ascetica, è un inno al perdersi al mondo
per ritrovarsi nel cielo. La sostanza di cui è fatto il testo sta
nella conoscenza vitale della scrittura, dei vangeli e delle let-
tere di Paolo. Essa era, anche, nella cultura e nelle manife-
stazioni della religione e della pietà dei tempi, di cui si è par-
lato, ma soprattutto nella coscienza di un personaggio, che
era stato protagonista della fondazione di una compagnia di
uomini che «eran nel mondo, ma fuor del mondo», raccolti
nel loro oratorio come in un chiostro, in un impegno religio-
so, spirituale e morale, fatto di difesa della fede e della pra-
tica del perfetto modello di cattolico, termine e identità che
con tanta evidenza si stagliano al centro della perorazione
dell’Albosco
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T
ESAURO
, 2003,
p. 151.