blasphaemias suggerere solet
».
Nell’osservazione va, almeno,
notata la visione diabolica e maligna dell’eresia, come vizio
e peccato, che era nella cultura cattolica dell’epoca, nei pri-
mitivi statuti della Compagnia di San Paolo e nel linguaggio
dei seguaci di Ignazio di Loyola.
Il difficile coinvolgimento del nobile torinese, l’affabu-
lazione secondo la quale esso fu tramandato, la lettera del-
l’Albosco, una «certa delusione da parte dei confratelli nei
confronti dell’eredità e degli ostacoli frapposti al suo otteni-
mento dalla Camera dei conti», come scrive la Raviola,
potrebbero avere anche un’altra lettura, più esterna al clima
spirituale di cui si è detto.
Verrebbero, cioè, ad esprimere una sorta di strategia da
parte dei primi confratelli della società, in gran parte legati al
mondo dell’amministrazione e del municipio cittadino, di
voler coinvolgere anche l’antica nobiltà, con il suo
pater
patriae
,
Aleramo Becuti, di cui il Merula scriveva: «
quem
profecto nescio maiorem ne ipse Augustae Taurinorum, cuius
civis est, splendorem adferat, quam ipse recipiat ab ea
».
Né va
dimenticato che il Possevino stesso osservava che in città,
secondo quanto gli riferiva il padre Cherubino, vi erano alcu-
ni della «comunità che non m’amano», forse per la sua
intransigenza nei confronti degli eretici, per cui anche se il
Becuti, come diceva il padre De Coudret «mostrava di amar-
lo», probabilmente intendeva temporeggiare, attendere
tempi migliori e non inimicarsi gruppi o personaggi di sentire
riformato, che, come è noto, gravitavano in quel tempo
anche attorno alla corte e alla duchessa Margherita
66
.
Del
resto l’insistere sul tema della superiorità della patria celeste,
contrapposta alla terrena, e sulla necessità, per un insigne cit-
tadino «catholico» come il Becuti, di lasciare un’autentica
eredità spirituale alla sua città, sembra un argomento usato
120
66
Si veda la nota 46.