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sed in manibus, et ante nos, id quod clarius in sequentibus explicat, et
vos similes expectantibus Dominum. Post opera vult expectemus: cla-
rius haec habentur Matth. 19, Marc. 10, Luc. 18 et alibi. Vendite quae
possidetis, et date aeleemosinam, et habebitis thesaurum in Caelo, et
alibi Propheta: Dispersit, dedit pauperibus, Iustitia eius manet in sae-
culum saeculi. Et Paulus divitibus huius saeculi: Praecipe non sperare
in incerto divitiarum, sed divites fieri in operibus bonis, facile tribuere,
tesaurizare fundamentum bonum, in futurum, ut appraehendant vitam
aeternam.
Si chiudeva, in questo modo, la prima parte della lette-
ra, nel segno e nell’eco degli insegnamenti di Paolo, quasi
una premessa su ciò che si dovesse fare per piacere a colui
nelle cui mani sono le chiavi della nostra vita e della nostra
patria beata.
Il gioco delle parole e dei segni è ambiguo. La patria per
Aleramo Becuti era la sua Torino dentro la cerchia antica
delle mura e, ora, forse maldestramente, nei bastioni della
sua fortezza.
Tutta la lettera dell’Albosco è intessuta della trama sot-
tesa dell’amicizia spirituale, da costruirsi e stabilirsi tra i due
in un impegno comune di piacere a Dio nell’esercizio della
carità vera, perché la patria terrena non li allontanasse da
quella celeste e il secolo diventasse il campo di battaglia per
la conquista dell’eterno trionfo. Probabilmente l’Albosco
intendeva anche far conoscere al Becuti il suo testamento,
per coinvolgerlo nella donazione: «Meum enim ad te prope-
rat testamentum, ut in ea parte, quae de Jesuitarum Collegio
tractat, quod mea non potuit in dotis constitutione sterilitas,
satis tua faciat abundantia».
Il certosino ricordava che, quando era ancora a Torino,
il nobile cittadino era stato, in un certo senso, sollecitato
dallo «spirito divino» ad aiutare i gesuiti: l’anziano decurio-
ne doveva, quindi, ritrovare quello «
spiritus Dei
»,
anche per
superare o non lasciarsi assalire dallo «
spiritus carnis
»,
dal
principe delle tenebre, «
qui amara, qui haereses, diffidentias,